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campione di calcio? E un ministro ladro e farabutto?».
Lei ha detto: «Ti rendi conto di quanto sei morboso?», ma i suoi tentativi di
liberarsi erano già molto più deboli, teneva gli occhi chiusi e le labbra appena aperte.
L'ho baciata sulla bocca senza mollarle le braccia, le ho forzato la lingua tra le
labbra e le ho rovistato il palato e ogni angolo accessibile. Lei si muoveva sotto di
me, ma adesso per accompagnare i miei movimenti, respirava lento e vischiato nel
suo modo. Poi siamo usciti a piedi per andare a un ristorante dove Maria era stata
con il suo regista, e anche se erano solo le otto e mezza le strade erano deserte.
Perfino la via di grande traffico dove avevo camminato di mattina era vuota, come
un lungo corridoio grigio scuro: la confusione e il rumore e i movimenti si erano
dissolti senza lasciare la minima traccia. Non c'era più nessuno lungo i marciapiedi
nessun suono nell'aria, nessuna luce alle finestre. Era diventato un fossile livido e
sinistro di città, con il semplice calare del sole.
Maria era spaventata; la tenevo alla mia destra raso al muro, ma non mi piaceva
comunque esporla a una situazione del genere. Ogni tanto una grossa macchina
arrivava a grande velocità, sentivamo il rumore fin da molto lontano, ci stringevamo
verso il muro nello spostamento d'aria.
Abbiamo impiegato dieci minuti a raggiungere il ristorante, ma è sembrato molto
di più; parlavamo d'altro, senza riuscire a concentrarci davvero. La piazza del
ristorante era deserta come tutto il resto del percorso, con al centro strani alberi dalle
radici enormi. Ho bussato alla porta di vetro blindato, una ragazza è venuta ad aprire
dopo averci studiati a distanza. Abbiamo mangiato pasta con le sarde e involtini di
pesce spada. Ho raccontato a Maria della nuova versione del mio libro, le ho spiegato
come avevo trasferito alcuni suoi tratti alla protagonista. Lei mi ascoltava attenta
solo a metà, poi mi ha raccontato qualcosa della lavorazione del suo film
Maria si è alzata alle sei e mezza. Non faceva nessuna fatica a svegliarsi così
presto, spinta com'era dall'eccitazione per il suo lavoro e dalla sua irrequietezza
naturale. Ma si preoccupava di avere la faccia troppo sbattuta.
Mi ha chiesto: «Ho le occhiaie? Sembro una specie di rana che fa gli stravizi?»
«No», le ho detto io, instupidito dal sonno. «Sei incredibilmente bella».
Lei non era affatto convinta, l'ho sentita che in bagno si spruzzava altra acqua
fredda in faccia. Poi ha preso borsa e giacchetta, ha detto: «Se non ti telefono per un
contrordine ci vediamo all'una al giardino botanico. Però vieni puntuale perchè ho
solo un'ora di pausa. Le ho detto: «Va bene».
Più tardi ho comprato i giornali e sono andato a fare colazione in una piazzetta
poco lontano dall'albergo, nell'intreccio di vicoli tra le due vie principali. Con il
giorno erano tornati i rumori e il traffico continuo e la luce che spazzava gli angoli,
anche se non era certo una città molto serena. Mi sono seduto a un tavolino al sole,
ho ordinato delle sfogliarelle alla crema e un cappuccino. Erano solo le dieci e non
avevo niente da fare fino all'una mi sembrava una piccola vacanza meritata dopo la
fatica degli ultimi tempi con il libro.
Avevo telefonato a Bedreghin dall'albergo per dirgli che sarei stato via ancora
due o tre giorni; lui aveva detto: «Non c'è problema, Bata. Lo sai quanto sei
indispensabile qua dentro».
Caterina non l'avevo chiamata, perchè mi ero alzato troppo tardi; non volevo
neanche immaginarmi cosa poteva pensare, dopo due sere consecutive di vuoto.
Non avevo cercato Polidori; volevo lasciargli il tempo di leggere con calma. Ho
sfogliato uno dei due giornali, tra un sorso di cappuccino e un morso di sfogliarella:
le ultime minacce cariche di allusioni dal presidente della repubblica a un giovane
giudice che avrebbe voluto sentirlo come testimone, gli ultimi dati sull'inflazione
oltre i tetti previsti e sul debito pubblico completamente fuori controllo, gli ultimi
cinque o sei ammazzati quotidiani in Calabria e Campania e Sicilia, due proprio a
Palermo nel pomeriggio. Erano un paio di settimane che non leggevo i giornali, ma
ogni volta mi colpiva come le notizie interne erano sempre le stesse, giorno dopo
giorno; solo quelle dall'estero cambiavano. A volte mi capitava di trovare una copia
di un anno prima da qualche parte e di leggerla come se fosse nuova: c'erano sempre
le stesse facce e gli stessi nomi, sempre gli stessi discorsi a vuoto. Poi ho preso il
Corriere della sera, e in un riquadro di prima pagina era annunciato un racconto di
Polidori. Ho aperto subito alla terza pagina: si chiamava Una scala. Era scritto nello
stile secco e rapido delle rare cose che a sentire Bedreghin lui gli dettava quasi parola
per parola. Come si poteva capire dal titolo parlava di una scala, e dei vari modi in
cui un personaggio chiamato solo L. l'aveva salita e discesa nel corso di quattro anni
per andare a trovare una donna che amava. Era una storia sul declino della passione:
sulla forza accecante che ha agli inizi, e su come per gradi si attenua fino a spegnersi
in una ripetizione di gesti e parole, tracce di sentimenti dissolti. Polidori me ne aveva
parlato quasi con le stesse frasi quando gli avevo chiesto consiglio su Maria e
Caterina; mi colpiva l'idea di avere avuto una specie di anteprima del suo racconto in
forma di conversazione. Ma la cosa curiosa è che mentre leggevo le sue descrizioni
dell'altezza e del numero dei gradini, e di come gli stati d'animo del protagonista
sembravano trasformarli ogni volta sotto i suoi piedi, ho cominciato a pensare che
parlasse della scala che portava a casa di Maria.
Non riuscivo a capire se era una mia sovrapposizione automatica, o dipendeva
dal fatto che tutte le scale sono molto simili tra loro; però più andavo avanti e più i
dettagli del racconto corrispondevano a quelli che avevo perfettamente vivi in testa e
nel cuore.
Ho continuato a leggere, con le tempie che mi battevano mano mano che le mie
impressioni si definivano e acquistavano un rilievo di fatti; quando sono arrivato in
fondo non avevo più nessun dubbio su qual era la scala, e qual era la donna in cima
alla scala.
Mi sembrava impossibile essere stato tanto sprovveduto da non capirlo prima:
non aver collegato il nostro doppio incontro a Milano e le reticenze di Maria e i
discorsi di Polidori, i loro spostamenti, le ombre nei loro modi di fare.
Poi i pensieri hanno preso a passarmi per la testa come macchine da corsa.
Cercavo di risalire a tutte le coincidenze degli ultimi mesi, e non riuscivo più a
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